2.21.2007

Io uccido


(non proprio io, dico il libro di Faletti!!!...)

Bene bene, dopo l’entusiasmante lettura di Il profumo, mi sono gettata nel diabolico abbraccio della scrittura di Giorgio Faletti, in questo libro uscito ormai da un po’ di tempo e che ancora non avevo avuto occasione di saggiare. Direi che mi ha sorpresa anche questo (è il periodo surpryse!!), perché avevo ipotizzato, date anche le dimensioni del volume, di annoiarmi assai e invece eccomi qui, coinvolta in una lettura frenetica dopo aver superato le prime iper descrittive pagine, sveglia di notte con la torcia in mano pur di comprenderne il più in fretta possibile l’intreccio. Per essere un esordio è stato quasi miracoloso: un testo scritto benissimo (ora capisco perché se ne era parlato tanto), strapieno di colpi di scena, originale nell’intreccio e capace di portare avanti nella maniera più corale possibile uno svariato numero di personaggi tutti egualmente sviluppati. A parte ovviamente la psiche di Nessuno e quella del secondo protagonista Frank Ottobre, con non troppe pennellate si disegnano i tratti di uomini e donne, da Nathan Parker a tutte le vittime di Nessuno, dal commissario Morelli a Nicolas Hulot con sua moglie Celine, di tutti si avverte il peso, la presenza, si viene coinvolti nella vita di ciascuno di essi e si vive con loro la paura e allo stesso tempo la fascinazione per questo personaggio. Un romanzo impeccabile, un thriller interessante e sicuramente orrorifico, un’ottima base anche per costruirci un film.

Il terrone, l’ebreo e lo zingaro: l’armonia delle differenze di fronte a scontri di sempre

Non posso fare a meno di commentare lo stupefacente spettacolo al quale ho potuto assistere ieri sera al Teatro Grande di Brescia, per la modica cifra di poco più di un biglietto del cinema (e ci tengo a sottolinearlo). Un’esperienza di piacere puro. Posso definire le circa due ore di musica infaticabile e impeccabile solo in questo modo: come un momento di gioia che pervade e di voglia di muoversi e lasciarsi andare a ritmi trascinanti al quale è davvero difficile resistere. Ad un certo punto dello spettacolo erano tutti talmente incantati dalla magia del momento da non riuscire a stare fermi, nemmeno dietro al mixer, nelle quinte o in platea.

Eccezionale.

L’ormai conosciuto ed eclettico siciliano Roy Paci, il pluripremiato e più famoso esponente della musica Klezmer: lo statunitense Frank London e Boban Markovic con il figlio Marko, accompagnati dall’insostituibile Boban Markovic Orkestar, hanno creato per noi sul palco un interessantissimo e perfettamente funzionante insieme di rielaborazioni di brani musicali appartenenti ai loro retroterra culturali, di pezzi originali e di nuovi arrangiamenti proposti per l’occasione, riuscendo a fonderli in maniera ineccepibile, quasi che a un certo punto questa fiera di fiati, trombe, trombe tedesche, flicorni, tube e batterie potesse smettere di suonare semplicemente brani studiati e si mettesse piuttosto a dialogare, musicalmente parlando, sulla scena. A parte il fatto di consigliare di andare ad approfondire le biografie di ogni singolo artista e in tutta fretta a recuperare i loro lavori, cosa che farò anche io immediatamente, resto comunque stupita dall’idea prima di tutto, anche “politica”, mettiamola così, di fare uno spettacolo del genere, che parla di rispetto e compenetrazione culturale e dalla una bravura e competenza che nella mia pochezza musicale comunque non ritrovavo da un po’. Sorprendente il “La” infinito di Marko Markovic, la ritmica irresistibile di tutta l’orchestra, la voce, calda e particolarissima di Boban e la capacità di Paci di suonare praticamente tutto ciò che abbia che fare con il suo strumento e non solo: un eclettismo portato avanti con estrema competenza e sinonimo di continua crescita artistica. Tuttavia quello che personalmente mi ha toccata di più è stato il suono della tromba di London: ognuno dei quattro principali musicisti è riuscito ovviamente a rendere lo spettacolo integro, di forma compiuta, esprimendo allo stesso tempo se stesso ed il proprio sound, ma quello malinconico e frenetico, intenso e leggero, estremamente variabile e fine della musica klezmer di Frank, mi ha saputa coinvolgere maggiormente.

Che dire? Mi sembrava di aver già sentito alcuni di loro (ad esempio nei film di Kusturica, come Underground e Arizona Dream, che sono stati firmati da G. Bregovic, ma dietro ai quali c’è sempre anche la G. B. Orkestar, ma non essendomi informata prima non avevo direttamente collegato il già sentito all’orchestra e viceversa), tuttavia ascoltarli in questo modo, dal vivo, mi ha comunicato energia pura, colpita emotivamente e divertita moltissimo.

Un’esperienza che consiglio al volo a chiunque: uno spettacolo musicale così ben fatto e divertente che non può non piacere.

2.19.2007

Il labirinto del Fauno: l’ormai mito di Ofelia e la fuga dalla realtà ( e chi se l’aspettava?!)

Un film che mi ha trasmesso direttamente sottopelle l’idea della crudeltà indicibile della guerra e dell’umanità nei suoi risvolti peggiori. Questo piccolo capolavoro esteticamente davvero potente e suggestivo, come in effetti solo una favola perfetta sa essere, a livello emotivo mi ha colpita moltissimo. Ogni immagine del film è satura di rimandi psicologici, mitologici, di icone di ogni tempo e paure archetipiche. La fotografia di Guillero Navarro è eccezionale e fa da subito pensare ad una sensibilità estetica anche violenta, di quelle che potremmo rimandare a Un chien andalou di L. Buñuel e S.Dalí: è immediato a questo proposito l’accostamento visivo alla scena della morte di Vidal ( al suo occhio), mostrata nel dettaglio in maniera talmente verosimile da scavalcare la realtà stessa per sottolinearne in maniera abnorme gli aspetti più bassi e crudeli. Era da tempo che non trovavo un film così capace di rendere sia a livello figurativo che più propriamente psicologico e narrativo il punto di vista di un bambino, in grado sul serio di trasfigurare la realtà in sogno e viceversa. La ninna nanna di Mercedes che fa da sottofondo al finale è uno dei momenti più struggenti che abbia mai vissuto, forse perché Del Toro riesce perfettamente a farci amare questo sguardo innocente sulle cose, la magia che Ofelia (una perfetta Ivana Vaquero) si crea intorno e che a molti, della propria infanzia, piacerebbe poter recuperare. Lascia ancora più malinconici, quasi senza parole, il pensiero di desiderare intensamente in realtà che ogni fine misera e ingiustificata, anche dignitosa, ma comunque e sempre crudele, come la morte di questa bambina, possa riscattarsi nell’accesso ad un altro mondo. Trascinati in maniera dolce e convincente nell’evolversi degli eventi del racconto ci si scopre a pensare, immersi nei colori della mente, della fiaba e allo stesso tempo della ricostruzione storico-romanzata, che il “padre Re” e la “madre Regina” inevitabilmente non possa essere che un sogno, ma non per questo meno vero della realtà, poiché nella mente dei bambini i sogni rappresentano precise verità (esattamente come in quelle dei folli, alle quali non si può non collegare l’eterna questione della fuga dalla realtà, intesa sia come fenomeno negativo, malattia, che come forma di salvezza propriamente mentale). Osservare le dinamiche di questa mente giovane e sognatrice in un momento aberrante come quello dello scontro in guerra tra violenza allo stato puro e resistenza, risulta affascinante e allo stesso tempo estremamente triste, poiché ci si trova a guardare al punto di vista dell’infanzia in maniera ormai disincantata e dunque sensibilmente diversa. Il labirinto del Fauno mi ha saputo raccontare parte della storia di una guerra, parlare di scontro in sé e per sé, di infanzia e allo stesso tempo di cosa significa per molti la disillusione dell’età adulta, mi ha stupita con i suoi mostri e le figure sorprendenti (vedi il rospo nell’albero o l’agghiacciante Orco Bianco) che in esso vengono raccontati, a livello visivo colpita in pieno e sarà anche una questione di sensibilità personale, non so, ma soprattutto lasciata di sasso per la capacità di fondere tutto questo in maniera ineccepibile.

Un piccolo capolavoro, una delle storie più belle e più terribili che abbia mai visto e ascoltato, un film che sinceramente da parte di Del Toro non mi aspettavo.

2.17.2007

Ma The Departed, vi è piaciuto?!
Premessa: io non ho visto Infernal Affaires, di cui tutti mi parlano veramente bene, quindi non ho un parametro di confronto. Vedendomi di fronte per la prima volta all’intreccio del racconto, l’ho trovato interessante, soprattutto per quanto riguarda le dinamiche del ribaltamento costante dei ruoli interpretati da Di Caprio e Damon e della pressione psicologica su personaggi già problematici in partenza. Il film mi sembrava avere un buon ritmo, scorrere via bene, più che altro interessa e anche il Costello che ho trovato quasi comico, caricaturale nell’interpretazione di Nicholson, faceva da ottimo diversivo, o da parentesi interessante tanto quanto singolare. Non so, alla fine mi ero detta: non male, di certo non un capolavoro, recitato forse bene, ma non in maniera del tutto convincente (soprattutto per quanto riguarda Damon, ma anche Nicholson stavolta, che in effetti ricordava più il protagonista di Shining piuttosto che il super mafioso che ci si aspettava di trovare…comunque ben venga: dico il deludere le aspettative!). Finale ridondante (non so com’era l’originale, ma c’era bisogno di fare proprio vedere la morte di tutti? Non la si poteva rendere intuibile?! Mi sarebbe sembrato di certo più elegante).Gli ultimi Scorsese direi che non mi piacciono, non so, forse si tratta di stanchezza, comunque lascio il merito al regista di avermi fatto conoscere la stimolante trama di Infernal Affaires. In conclusione direi: un film piuttosto divertente, ma mi hanno dato di più Lord of War di Andrew Niccol e L’uomo delle previsioni del tempo di Gore Verbinski, sia in termini di originalità che per la capacità di rendere l’argomento con poco o nulla (poi del primo ho apprezzato particolarmente l’ottimo montaggio).
Ma c’è poi bisogno davvero di tutti questi remake?! Bha…

2.16.2007

Seguendo la scia dei titoli creativi, Il calamaro e la balena ( lo so, è un po’ lunga, ma mi è venuta così!! Sorry)

Direi che sono una di quelle persone che possono ritenersi accanite seguaci di un certo tipo di commedia che ormai da diversi anni sguazza nell’ansa di un genere alla sorgente del quale metto film come The Royal Tenenbaums (2001) e Rushmore (1998), entrambi di Wes Anderson. Non giunge dunque del tutto inaspettato un lavoro come quest’ultimo film di Noah Baumbach (2005), che sotto molti punti di vista soddisfa in gran parte le aspettative di chi è corso a vederlo, consapevole della comune sensibilità letteraria di Anderson e Baumbach e del fatto che quest’ultimo è stato anche il suo sceneggiatore per Le Avventure Acquatiche di Steve Zizou (2004). In effetti è vero, si ritrova un po’ quel che ci si aspettava di incontrare, ma dal mio punto di vista stavolta anche molto di più: la commedia riduce il proprio spazio vitale per lasciare aria al dramma e in maniera estremamente verosimile. Probabilmente parlo solo a nome di coloro che hanno una precisa estetica e sensibilità, perché film come questi, che dicono molto, che parlano anche di cose importanti, ma soprattutto di contraddizioni e tendendo sempre a sdrammatizzare, spesso estremamente colorati (di nuovo ci si trova di fronte alla coloratissima e molto studiata fotografia di Robert D. Yeoman, che accomuna ancora una volta Anderson e Baumbach, pensando tra l’altro al fatto che il primo, in questo caso, è anche produttore del film), possono anche non piacere per nulla. In questo caso tuttavia Il calamaro e la balena potrebbe piacere un po’ a tutti e probabilmente in particolar modo a chi ha vissuto esperienze simili a quelle raccontate.
Così come ho sentito profondamente i film sopra citati direi che ho vissuto in maniera intensa anche questo, che tuttavia mi ha sorpresa, proprio perché ha saputo assecondare le mie aspettative ma allo stesso tempo stupirmi tradendole. Le atmosfere, la Brooklyn degli anni ’80 con lo zampino scaltro del Super 16, che ricorda molto la fotografia dell’epoca e di intelligentissime riprese che alternano veramente bene, come d’altra parte anche i film precedenti, riprese a spalla, molto mosse, ed altre invece statiche, elaborate e controllate ai limiti del disegno architettonico e della natura morta (ma sempre coloratissima)…sono tutti elementi che contribuiscono a rendere situazioni che portano avanti di pari passo una visione della vita quasi fumettistica e allo stesso tempo una grande nostalgia.
Cosa mi colpisce nuovamente in un lavoro del genere… La sincerità prima di tutto e la grande capacità di rendere certe dinamiche psicologiche senza bisogno di ricostruirle in maniera ossessiva: suggerendole piuttosto. In un momento che vive di ricostruzione quasi maniacale di drammi e tragedie di ogni tipo ( che noia), mi sembra che lavori come questi, di assoluta finzione, possano rendere decisamente meglio (o almeno, questo vale per me) di tanti altri. A parte l’interpretazione eccezionale degli attori e in particolare di Jeff Daniels nel ruolo di Bernard Berkman, sulle quali potrei spendere fin troppe parole e nonostante un finale volutamente lasciato aperto che a molti potrà dare fastidio (ma che io ritengo più che adatto all’argomento stesso del film e sapientemente discreto), io trovo nella storia di Baumbach la facoltà straordinaria di far venire a galla il costante interrogarsi che sta alla base delle dinamiche famigliari e di relazione e in ultimo della comunicazione in generale.
La situazione del divorzio è resa benissimo: nonostante il matrimonio sia stato anche positivo e le persone verosimilmente non smettano di volersi bene, tuttavia l’esperienza finisce, quasi per caso, per scelta arbitraria, come spesso accade, senza effettive spiegazioni razionali, ed ecco che ognuno riveste il proprio ruolo: la donna è colei che decide, sempre un po’ egoista e ogni volta risolutrice di situazioni ormai statiche, il padre più buono e insicuro teme di perdere i figli, ovvero tutto ciò che gli resta della sua vita e degli ultimi vent’anni (dati anche i frequenti insuccessi in ambito lavorativo), ognuno cerca di sedurre i figli per portarli a sé, si sfoga in massa il proprio egoismo e si teme contemporaneamente di sbagliare, i figli adolescenti che cominciavano a dare forma alla propria personalità vedono sgretolarsi inevitabilmente davanti ai loro occhi il mito dei genitori e li scoprono tristemente esseri umani: dunque impantanati in evidenti contraddizioni, perversioni varie, attrazioni vaghe e via dicendo. A livello estetico la vicenda potrebbe essere vista come un buon stereotipo, ma anche questa volta il film lavora in realtà in maniera molto più sotterranea e le persone vere saltano magicamente fuori da battute, dialoghi, attraverso semplici modi di porre certe questioni, anche solo a partire dallo sguardo di chi sta dietro alle macchine da presa. Non saprei nemmeno come spiegarlo (per questo sono così prolissa): per me questi film lavorano davvero in maniera psicologica (oppure è la mia psiche che ormai è andata a p…). Eppure lo vedo qui, scorrere sullo schermo, il rapporto eccessivamente confidenziale, lusinghiero e distruttivo di un genitore che teme di perderti: vedo uomini e donne veri, estremamente vaghi e labili. Nella risata isterica della madre percepisco l’ironia della sorte, il modo molto umano di superare le cose anche peggiori, così, quasi senza coscienza, e proprio in figure colte, razionali, che sembrerebbero poter calcolare con cura i propri passi; vedo nei personaggi la capacità di giocare sulle proprie parole, sulla cultura e su un certo uso del linguaggio, al fine di manipolare le persone care, per paura, per insicurezza, o semplicemente per proteggersi. In questo film viene resa assai bene la destabilizzazione di una famiglia colta, che comprende la psicologia degli individui e che ride scettica sull’indomabilità dei sentimenti, la personalità di chi sa osservare bene gli atri, di chi analizza e che tuttavia non riesce ad avere la meglio sulla propria vita. Allo stesso modo vedo precise e sfuggenti le figure di adolescenti giustamente in fase di formazione del proprio carattere e che di fronte alle crisi dell’età adulta si trovano ancora di più nella situazione lampante di dover scegliere chi essere, con la consapevolezza di non avere alcuna certezza su presente e futuro.
In sostanza in questo film ogni cosa parla di labilità e di contraddizione, di piccolezza e impotenza, dunque, dal mio punto di vista, di essere umano puro.
Anche il ridimensionamento finale di entrambe le figure genitoriali da parte dei figli, inizialmente schieratisi da un parte piuttosto che dall’altra, e il loro allontanarsi all’improvviso da loro, dinamica naturale in queste situazioni probabilmente accelerata, ma allo stesso tempo inevitabile, mi sembra degna conclusione e conseguenza della situazione che questo spaccato ci vuole offrire.
Se mi chiedessero in un’altra vita di fare film con queste sceneggiature, basati sulle stesse scelte musicali di fondo, su questo tipo di fotografia e con gli stessi ritmi, ci metterei la firma, perché mi ci ritrovo in pieno.