7.01.2007

I Pirati dei carabi, ovvero la saga dell’un due tre…


Dunque dunque, non è certo con chissà quali pretese da cinefilo che si va a vedere un film della Walt Disney, anche se le saghe del passato (prima tra tutte Indiana Jones), dal mio punto di vista, alivello di funzionalità e attrattiva nulla avevano di meno di un bel Signore degli anelli!

Sono andata a vedere tutti e tre gli episodi della triade (che speriamo non si accresca) di Gore Verbinski più che altro perché mi attraevano le scenografie, davvero, moltissimo e per l’idea di un Pirata che lo fosse davvero, frode fino al midollo osseo, simpatico quanto egoista. In tutti e tre i film (il secondo, per chi non lo sapesse, è La maledizione del forziere fantasma, 2005 e il terzo Ai confini del mondo, 2006) il personaggio di Johnny Depp nel ruolo di Jack Sparrow è perfetto, soprattutto in apertura al terzo, quando si trova chiuso nello scrigno del cattivissimo capitano Jones, appunto ai confini del mondo, a stretto contatto con le molteplici sfaccettature della sua mente. Un po’ folle, un po’ dandy e molto ambiguo, Sparrow è la perfetta declinazione autoironica dell’eroe e il suo è l’unico personaggio che resta coerente fino alla fine. Tutti e tre i film vivono essenzialmente della meravigliosa fotografia di Dariusz Wolski e del plusvalore spettacolare dato da tutto ciò che è pro o post filmico, dunque scenografie, costumi, effetti speciali e quant’altro, ma se il primo era interessante, il secondo insopportabile, soprattutto per la banalità dei dialoghi, i tempi morti e stramorti, l’orrenda vicenda amorosa e la pessima recitazione soprattutto di Keira Knightley (in questo film alla peggiore interpretazione), il terzo stupisce all’ennesima potenza per la rappresentazione del magnifico Olandese Volante, già nucleo essenziale del secondo episodio e fa acqua da tutte le parti per quanto riguarda la storia. Non che i risvolti narrativi non siano accettabili: la strega è in realtà la dea che catturò il cuore di Jones, dai confini del mondo si torna per ribaltamento alla realtà, si entra nel cosmopolitismo pirata, si passa dal film “arti marziali” al romantico, all’orrorifico e via dicendo, i padri vengono in aiuto ai figli, incluso lo stranissimo Keith Richards nella parte del padre di Jack, un’alta dose di spirito anarchico…insomma, le trovate c’erano e io personalmente sono rimasta sconvolta dai granchi-pietra dell’inizio (atmosfera davvero onirica), ma ad un certo punto, in tutta questa rocambolesca serie di avvenimenti, ci si accorge di non aver capito quasi nulla, si ha la netta sensazione di trovarsi a metà di Dynasty, quindi nell’infinito e ci si annoia, ci si annoia a morte. La mia opinione è che questa saga, anzi, questo film, sarebbe potuto essere, per le trovate e la fattura, un vero capolavoro, se una produzione sempre più bieca e dominata dal cattivo gusto (nonché dall’evidente necessità di vendere gadgets forse per pagare i propri attori), non avesse molto probabilmente imposto di farne tre episodi. La storia si poteva e si doveva risolvere in un unico film di massimo tre ore, con tutte le sue trovate magari concatenate meglio, in maniera più semplice, lineare e senza quella marea di scene in più, che anche un bambino di tre anni riconoscerebbe come aggiunte in maniera forzata.

Peccato, un grande, spettacolare, buco nell’acqua, di cui resteranno non i film, non l’invito alla rivolta di un certo sistema e all’anarchia, ma poche tracce, come appunto la figura di Sparrow nell’interpretazione di Depp e il mitico Olandese Volante.

Nashville, di Robert Altman, 1975

Mi è capitato di vedere questo film di cui avevo parecchio sentito parlare e dato che la mia intera filmografia su Altman è carente, credo che dopo aver visto questo mi farò una bella esplorazione di tutto quel che ha prodotto, che non è poco!

Nashville è praticamente la rappresentazione cinematografica del celebre festival di country music dell’ormai famosa capitale del Tennessee, ad è stata anche un’occasione per allestire il più grande happening della carriera del regista: una sorta di set itinerante continuamente in movimento lungo il territorio della città. Altman è riuscito ad imbastire una trasparente allegoria del suo Paese, visto, sorpreso e analizzato nel corso di gioioso quanto macabro “rito di massa”. La manifestazione musicale è l’escamotage attraverso cui il regista squaderna sullo schermo un viluppo di storie, fatti, suoni e colori che sfondano subito i confini fisici di Nashville e della sua popolazione, ridotta a “campione umano”, esaltato dal ricorso al formato largo; in questo modo ciò a cui disperatamente la produzione degli anni Cinquanta si aggrappava per rilanciare l’unicità della visione in sala, diventa in mano agli autori del film in questione molto più che un orpello tecnico (quello che poi, purtroppo, ultimamente è ridiventato). In questo film l’uso del Panavision è servito davvero! Permette infatti di catturare porzioni di realtà impensabili per un taglio televisivo, pur restituendo l’idea di una specie di cronaca, di qualcosa di unito, ma allo stesso tempo di frammentario, che necessita di un completamento (o ne dà l’impressione) da parte dello spettatore. In Nashville la fotografia, associata ad un consapevole uso della profondità di campo e dello zoom, si è trasformata in uno strumento eccezionale per chi abbia interesse a sottolineare la compenetrazione tra l’individuo e l’ambiente che lo contiene.

Il film lo definirei quasi un “ipertesto”, nel quale del resto una serie di operazioni sono ben lungi dal limitarsi all’aspetto visivo: l’autore infatti ha riposto anche nel sonoro della sua opera parte integrante del senso in gioco, sperimentando per l’occasione un all’epoca innovativo sistema di registrazione a ventiquattro piste, l’unico adeguato al tipo di lavoro che si prefiggeva di realizzare. La restituzione fedele di voci e rumori, slogan e canzoni dispiegati nel tentacolare universo del film è pertinente al suo proposito di fornire al pubblico quanto più materiale visivo, sonoro e umano fosse in grado di mettergli a disposizione, da cui ogni singolo spettatore potesse attingere per costruire il “proprio” film. Per forza di cose, il set diventa l’intero nucleo urbano: gli eventi si rincorrono e non si capisce più se il cinema insegua la musica o viceversa. Arriva gente da tutti gli Stati per partecipare o assistere al Festival di musica, ma negli stessi giorni Nashville è teatro di un evento parallelo, costituito dalla campagna di un fantomatico politico (che non appare mai) candidato del “Terzo Partito”. Naturalmente c’è tutto l’interesse, da parte di chi lavora per lui, nel canalizzare l’evento musicale a favore della riuscita elettorale e questo è lo sfondo sul quale il film inscrive il suo materiale umano. Tuttavia la macchina da presa del regista rimane sempre in “superficie” e difficilmente si preoccupa di adottare un’ottica di tipo emotivo: in continuo movimento, essa si cura bene di non avvicinarsi mai troppo al suo materiale umano e nel film non si trova praticamente traccia di primi piani, da sempre lo strumento principe del linguaggio cinematografico in fatto di approfondimento psicologico. Per tutto l’arco del film si ha la netta sensazione di stare “dalla parte” di qualcuno, quasi che noi stessi fossimo diventati gli operatori di questa specie di “documentario”: un sensazione assai curiosa. Ma è solo uno dei tanti tranelli dell’autore: la sua scrittura “superficiale” non privilegia niente e nessuno, puntando ad un certo punto il mirino della macchina da presa direttamente contro la platea, durante il concerto finale, nella quale gli spettatori si guardano tra di loro con espressioni interrogative, come se proprio tra loro (noi) dovesse ad un certo punto accadere qualche cosa.

Forse non soddisfatto della forte critica inflitta ad un popolo che pur di far continuare lo spettacolo di vecchi mostri, pur di non doversi preoccupare direttamente delle cose, intona “It don’t worry me” anche dopo un omicidio, il regista non lascia fuori dalla sua accusa nemmeno lo spettatore cinematografico, il cui ruolo privilegiato di neutro osservatore poteva far credere d’essere esentato dall’invettiva.

Nasville mi ha stupita molto: per la sua struttura composita, corale, per le storie dei molti personaggi assurdi quanto realistici che si intrecciano nello stesso ambiente, per la capacità di descrivere i costumi di un luogo in una determinata epoca attraverso la musica e in maniera così fluida, per cui da un personaggio si scivola sull’altro in continuazione, sul filo di un destino invisibile che sembra legarli e che si associa alle caratteristiche dell’ambiente in cui vivono (è vero che Altman è un po’ antropologo!). Mi sembra espresso con chiarezza e senza alcuna retorica il disagio generazionale di una comunità che vuole tagliare i ponti con il suo passato, con il rispetto per i vecchi padri e ormai usurati simboli. Il ragazzo che spara alla famosa cantante country (e questo genere musicale viene preso in giro e martoriato dall’inizio alla fine, semplicemente mettendo lo spettatore di fronte all’evidenza di quanto ormai sia invecchiato e inadatto al tempo cambiato) lo fa poco dopo che ella ha concluso una canzone proprio in omaggio a tutti i padri e le madri d'America, come se a quel punto non avesse più potuto fare altrimenti. La musica di questa cantante è bella, interpretata bene, meglio di molti altri che sentiamo nel film, ma rappresenta qualcosa di già passato, di ormai contaminato dallo Star System e di rivolto su se stesso, incapace di evolvere: che ha fatto, in sostanza, il suo tempo.

La musica si fa manifestazione vivente di qualcosa di ormai morto e sepolto. La mancanza di rispetto verso il passato, per certi estremi anche criticabile, la si nota nella figura della modella che non considera la zia nemmeno in punto di morte e che frivola e superficiale, è diventata ormai apparenza totale. Tom invece, il cantante belloccio, cerca l'amore vero in una madre di famiglia, la quale rappresenta probabilmente un mondo pensato come puro, ma in realtà ormai contaminato da un presente moralmente più caotico del passato.

Nashville è senza dubbio una fortissima denuncia al mondo dello spettacolo, in nome del quale la gente è disposta a vendersi con facilità pur di avere un momento di celebrità, come fanno la cameriera stonata o la stessa Barbara Jean (la cantante famosa), che ha ormai esaurito le sue energie nella costante applicazione di un sogno che l'ha distrutta fisicamente e che forse apparteneva più a sua madre che a lei, o che probabilmente non poté nemmeno scegliere. E’ una critica al giornalismo, soprattutto televisivo, vano e superficiale, attratto dal sensazionalismo e portato avanti in maniera ingenua (convincente quanto fastidioso il personaggio interpretato da Karen Black), è un film sulla contaminazione, prima di tutto tra vecchio e nuovo, che ci porta da un estremo all’altro, vale a dire dall’adesione totale e conservatrice al passato, al distacco totale e crudele dalla storia e dal vissuto personale. Girata un po’come se fosse un documentario e anche un musical, è una pellicola dal ritmo calmo, lento, in cui molti dei personaggi sembrano vivere quasi solo in nome dei tempi andati, come ad esempio il militare che insegue la cantante in tutti i suoi concerti perché la madre glie l'ha chiesto in punto di morte e che con il decesso (forse) della cantante vede svanire quello che è ormai diventato quasi l'unico scopo della sua vita.

Nashville mi ha dato l’idea del momento in cui si colloca, mi ha infilato questioni nel cervello quasi senza che me ne accorgessi, è un film molto particolare.

Ho scritto troppo J


A Snake of june, di Shinya Tsukamoto (2002)

Quarto lungometraggio importante (ma ne ha fatti ben di più) dopo Tetsuo: the iron man (1989), Tokyo Ken (1995) e Bullet Ballet (1998), questa pellicola, premio speciale alla mostra di Venezia del 2002, è prima di tutto uno dei più convincenti film sulla fotografia che abbia visto fin’ora e in particolar modo sull'uso di tipo compensativo e catartico, a livello psicologico, che se ne può fare.

L’intera pellicola, al di là del racconto vero e proprio, sembra giocare simbolicamente e come struttura sulla visione e il riconoscimento di sé stessi secondo un senso ormai diffuso di sdoppiamento e quindi spesso solo attraverso l'occhio della macchina fotografica: unicamente mediante la continua rappresentazione di noi stessi intesa come specchio impietoso.

L’intera pellicola è girata in bianco e nero e virata blu, propriamente in blu e nero, molto sgranata, probabilmente per sottolineare ancora una volta l’effetto di analisi ed ingigantimento della realtà propri del mezzo fotografico, secondo la sana tradizione che va da Blow Up in poi. L’uso emotivo del colore in questo film ricorda i migliori e più audaci esperimenti di Kurosawa, non a caso altra fonte d’ispirazione del regista, soprattutto mi fanno venire in mente quel gioiello che è Dodes’ ka-Den (1970, in cui i verdi che contaminano letteralmente l’ambiente restituiscono l’angosciosità di un mondo completamente alla deriva, sia fisiologica che psicologica.

E’un Antonioni del cinema giapponese questo Shinya Tsukamoto, che produce i suoi film integralmente, vecchio stile, curandone ogni aspetto: la fotografia, l’illuminazione, il soggetto e la sceneggiatura, arrivando a montare individualmente ogni film. Un vero filmaker, spesso anche attore nei suoi film, apparentemente incurante delle caratteristiche industriali della sfera del cinema e amante delle atmosfere cupe e Cyberpunk dei film di Cronenberg (e si vede).

Una coppia curiosamente assortita comprende una giovane e bellissima donna, Rinko, (splendida Asuka Kurosawa), impiegata in un centro di igiene mentale e suo marito, Shigehiko, un uomo molto più anziano di lei, insignificante e anonimo, vittima delle proprie manie, tra le quali un folle bisogno di igiene a tutti i costi e la vera e propria paura del proprio organismo e dei propri umori. Tra i due coniugi in ogni istante del film traspare sentimento, in particolare (ed incomprensibile) modo da parte di lei, che ha cercato forse in quest’uomo qualcosa di rassicurante di cui aveva bisogno, ma la vita dei due sembra anche rassegnata ad una soffocante monotonia, alla freddezza e alla totale mancanza di scambi d’affetto e di una qualunque forma di sessualità. Tutta questa mancanza di vita, il costante contatto con la sofferenza e la follia altrui (anche la madre del marito è pazza e lui non è proprio normale), fanno ammalare la giovane di tumore al seno. A quel punto un fotografo, interpretato dallo stesso Tsukamoto, al quale lei ha salvato forse la vita o che comunque l’aveva contattata telefonicamente restandone colpito, avendo compreso, dato che anche lui è malato di cancro, il suo malessere, inizia un gioco sadico e inizialmente molto perverso di liberazione della libido della donna, costringendola, attraverso un “ricatto fotografico”, a mettere in pratica i suoi desideri più segreti (intendo quelli di Rinko). La vicenda si svolge per tutta la prima parte del film in un’atmosfera sospesa, di vera angoscia, amplificata dalle immagini di un’anonima metropoli giapponese malata e piovosa, grigia e soffocante, vista sempre e solo nei dettagli e quasi mai per intero. Questo tipo di visione, molto frammentaria e puramente fotografica, porta in ascesa la tensione dello spettatore calando i personaggi in posti assurdi e irriconoscibili, come la fabbrica in cui una serie di uomini in giacca e cravatta sono costretti, attraverso monocoli, ad osservare scene di morte o di violenza, in un clima che non è possibile ricondurre né alla finzione, né alla realtà. Alla fine il fotografo, testimone del suo stesso dissolversi, si trasformerà da persecutore in una specie di angelo vendicatore (altamente simbolici sono il bacio che dà a Shigehiko prima di punirlo per la sua cecità, o i tentacoli di plastica nei quali sembra lo voglia strangolare), che farà capire ad entrambi, ma soprattutto al marito sopito, l’importanza di ognuno di essi per l’altro e venire alla luce, sia pure bruscamente, la loro bellezza. L’uomo amerà il corpo non più perfetto della donna, liberatosi da tutte le sue distruttive ossessioni, in un conclusivo e liberatorio atto carnale. Un lieto fine dunque, anche se tirato per i capelli e che non lascia tranquilli, anzi, che fa pensare alla fragilità umana, alla follia e a quanto poco possano durare i momenti di felicità che spesso non si è nemmeno in grado di autoprocurarsi. Un finale che non concede sicurezze nemmeno dopo l’ultimo dei titoli di coda.

A Snake of June è un film che consiglio di vedere, in nome dell’originalità delle forme, per il profondo senso estetico, per non rischiare di diventare troppo trappola di sé stessi, per non avere paura delle contaminazioni. Anche questa una pellicola estrema che o piace o non piace, ma almeno viva e di sicuro effetto, vera antitesi del patinato.