5.22.2007

Blood-The last Vampyre: cominciamo parlare di Anime

Ho rivisto di recente questo mediometraggio animato che intravidi anni fa senza dimenticarne le immagini impressionanti, ma avendo rimosso completamente nome e contenuto. Rivendendolo ho capito perché e ho deciso di dedicarmi con fervore alla visione della serie televisiva che ne è stata tratta (Blood+) e che attualmente è visibile solo in Giappone, ma che un gruppo di fan chiamato Full Metal Alcoolist ha deciso di diffondere sottotitolato in italiano. Mi sono detta, visto che su questo blog si parla di moltissime serie Tv, che tra l’altro conosco poco perché non le amo moltissimo, o che forse semplicemente non conosco, che sarebbe bello parlare anche di Anime (e di meravigliosi ne conosco una valanga) e di serie manga! Dato che pecco in serie tv ma ho visto tonnellate di cartoni animati, da oggi verserò il mio contributo in questo senso.

Parlando invece di Blood, the last vampyre, ecco la vicenda. Anni sessanta. Yokota, base militare americana in Giappone. Alla vigilia dello scoppio della guerra del Vietnam, un gruppo di agenti segreti giunge dagli States per far luce su alcuni misteriosi casi di suicidio avvenuti fuori e dentro la base. Tra questi uomini in nero c'è anche Saya, una giovane dal volto perennemente corrucciato, che nasconde dietro all'immagine di comune liceale un'attività di cacciatrice di vampiri. E proprio ai vampiri si devono queste morti sanguinose; vampiri (o chirotteri) che si nascondono tra i comuni soldati o addirittura tra i loro famigliari. A fare da spettatrice a questa cruenta caccia al demonio, che per ironia della sorte avrà luogo durante la festa di Halloween, sarà una mite dottoressa che, dopo aver aiutato Saya nell’impresa, sarà costretta a negare tutto alle autorità. Blood the last vampire è definita come l'opera più commerciale e disimpegnata a cui l'Oshii autore, per inciso quello post-Lamù, ha prestato il suo nome. Il mediometraggio è diretto da Kitakubo Hiroyuki e fa parte di un progetto "multimediale" concepito dalla I.G Production, comprendente anche 3 romanzi (il primo dei quali, La notte delle bestie, scritto appunto da Oshii), un manga, e un video-game per la Playstation 2. L’idea di sviluppare una storia su un piano narrativo multimediale non rappresenta di certo una novità nel panorama Giapponese (e non solo) e lo stesso Oshii aveva già lavorato in tal senso creando insieme al team di Headgear la lunga saga di Patlabor sviluppatasi negli anni in Tv, in Home Video e al cinema, oltre che in edicola sotto forma di manga. La production I.G. continua a sfornare lavori decisamente interessanti. Basti pensare a Jin Roh, alla serie Stand alone complex di Ghost in the shell. L’impronta fondamentale nella realizzazione di questo anime è fornita da Mamoru Oshii, già autore di Ghost in the shell, dei due film di Patlabor e del recente live action Avalon, presentato al festival del cinema di Cannes. Venendo a mancare la conoscenza di quanto narrato nei romanzi, nel fumetto e nel video-game la visione del film si riconduce unicamente ad un semplice svago di 48 minuti (di buona fattura, questo sì), che non fornisce allo spettatore nessun indizio circa i personaggi e il loro background, e che ci offre un falso finale senza alcuna risposta (lasciando davvero sulle spine). Un'occasione mancata insomma, almeno fino al momento in cui il Blood Project non troverà una distribuzione completa in occidente, soprattutto in America dove il film è già stato distribuito nelle sale cinematografiche.

Blood è stato presentato come il primo anime interamente realizzato in digitale. Sono stati combinati due tipi di animazione diversa: quella tradizionale su rodovetro (applicata però al supporto digitale e non alla pellicola) e la moderna Computer Graphic 3D. Il tratto è originalissimo e atipico per un anime, assai ricco di dettagli, è ammirevole l’uso delle luci e delle ombre, che sfruttano le migliaia di sfumature messe a disposizione dalla grafica digitale, assolutamente indispensabili all'atmosfera transilvanico-gotica che si è desiderato ricreare nell'ambiente militare della base americana. Questo anime è stranamente affascinante, tanto da colpire lo spettatore alla prima visione. Innanzitutto lo stile si allontana da quello tipico dell’animazione giapponese, avvicinandosi invece a quello del cinema, dalle parti di Kitano. Difatti la prima parte del film, escluso il folgorante incipit, è costellata di numerosi tempi morti, che accumulano azione col passare del tempo, la quale esplode poi in tutta la sua violenza nella parte conclusiva della pellicola.
Il lato tecnico è stupefacente: i colori sono sfumati, caldi, soffusi, in modo da rendere le sequenze scure come l’animo delle creature assassine e da disorientare per quanto riguarda la collocazione temporale, restituendo in maniera immediata l’idea di un personaggio fuori dal tempo, proveniente, come capiamo da una vecchia foto della famiglia Vampyre, da un passato remoto e destinata a vivere sempre le stesse esperienze, a sterminare, in ogni tempo, forse il suo stesso genere. L’ambientazione rimanda agli anni cinquanta, o a quelli legati alla fine della seconda guerra mondiale, ma alcuni elementi discordano con questa teoria, lasciando lo spettatore ancora una volta in una condizione di dubbio. La regia è fortemente realistica, non ci sono inquadrature “impossibili” da riprodurre nella realtà, forse per dare maggiore solidità alla storia, per renderla più credibile. D’altronde non si può classificare Blood the last vampire come un semplice film sui vampiri. La profondità dell’approccio eleva il discorso affrontato su di un piano che prevede riflessioni filosofiche e sociologiche, in particolar modo è posto l’accento sul concetto di razzismo, sulla futilità della guerra (discorso che verrà portato avanti moltissimo nella serie Tv, parlando della guerra in Vietnam e del rapporto forzato con gli Stati Uniti che il paese vive come un peso ancora oggi). Questo risvolto non è immediatamente chiaro, solo nel finale si intuisce il vero senso dell’opera, nel gesto simbolico della protagonista, apparentemente fredda e meccanica, considerabile un efficientissimo strumento da guerra, che vive una profonda ed inaspettata pietà per il chirottero che ha appena ucciso, quasi potesse capire le sue ragioni e suoi bisogni, facendogli bere il proprio sangue (anche se si vede poi nella serie come il sangue di Saya sia veleno per i vampiri). L’aiuto che lei fornisce va al di là delle mere considerazioni di tipo morale, tocca una sfera più universale, cioè la necessità di saper convivere con il prossimo, vanificata dalla natura umana, che, spietata ed egoista, soddisfa la regola della scelta razionale. Tutto ciò porta l’uomo a distruggere il proprio simile, in un’apoteosi di violenza insensata, la cui essenza storica è rappresentata dalla guerra. Le immagini che fanno da sfondo ai titoli di coda mostrano momenti bellici: il vero vampiro, si sa, è l’uomo stesso, alla continua ricerca di sangue altrui e di soddisfare i propri istinti omicidi.

Un’anime che mi ha colpita per la fattura, per le immagini potenti e commuoventi oltre che tanto particolari da disorientare un po’, che sottendono a ricerche formali, come quella sul colore, che sembrano appartenere molto più al mondo dell’illustrazione francese che a quello delle serie giapponesi, ma anche per la vicenda che si lascia solo intravedere e che sviluppata poi nella serie si dimostra capace di raccontare anche la Storia oltre che un’avventura romantica. Peccato davvero che il film visto così, senza il suo contesto produttivo, presenti moltissime lacune narrative (altrimenti si sarebbe affermato come piccolo capolavoro, dal mio punto di vista), perché tutto sommato anche con pochi tratti era riuscito a rendere la psicologia dei personaggi. Si lascia la visione del film in preda ad una serie di domande opprimenti: chi è Saya, da dove viene, perché uccide, anche lei è un chirottero, perchè proprio lei, è l’ultima di quale stirpe, cosa le è accaduto, quanti sono i chirotteri, cosa vogliono dall’uomo? E così via, all’infinito, desiderosi di darsi delle risposte. Dunque il soggetto attrae e quando poi si trovano risposte alle domande nella serie Tv, si resta invece delusi dalla scomparsa dei tratti molto poco manga di Saya, sostituiti da un disegno molto più semplice e tradizionale. Tuttavia, innamorati dei due occhi azzurri del mediometraggio, si vive bene anche la serie, comunque ben fatta, alla ricerca della storia di Saya.

Una storia violenta


Scritto da John Wagner, uno dei punti fermi del fumetto inglese da più di trent’anni, vincitore di diversi Award per le sue sceneggiature, creatore dei soggetti ad esempio di Judge Dredd e Button Man e disegnato da Vince Locke, autore di “cosucce” come Deadworld, Sandman e American Freak, questa Graphic Novel rispecchia bene il titolo che si porta appresso. Identica nel prologo a all’incipit del film di Cronenberg (anzi, è il film a cominciare nello stesso modo), per il resto si differenzia notevolmente dalla pellicola, che da questo ha preso ispirazione. Tom ripercorre nella seconda parte del fumetto un unico forte episodio della sua gioventù: una ragazzata compiuta per assecondare un amico il cui fratello era stato ucciso a sangue freddo da un boss della mafia di Brooklyn, che dà l’idea di come ci si possa trovare in certe pericolose situazioni un po’ per bisogno e un po’ per assoluto caso. Il piano di furto e di contemporanea vendetta dei due adolescenti va in porto segnando anche il più grande massacro di boss della Mafia della storia americana, il nostro Joey-Tom riesce a fuggire con una parte dei soldi (l’altra era destinata alla cura della nonna malata) e ad andare molto lontano a rifarsi la vita che vediamo all’inizio, mentre sembra che l’amico Richie, avendo ostentato troppo la sua conquistata ricchezza, sia stato individuato e soppresso dal figlio del Boss principale, tale Manzi. Detto tutto questo, la storia in tutta la sua semplicità e sinteticità si fa agghiacciante nella terza parte del racconto, quando facendo un baffo alle peggio torture di Hostel, con tanto di trapani e di fiamme ossidriche, si vede Manzi aver tenuto in vita per più di vent’anni, a scopo di ricatto e vendetta ovviamente, quello che ormai è il cadavere vivente di Richie, il quale, dopo essere finalmente stato liberato da Joey, gli chiede di ucciderlo, poiché ridotto ormai a una sofferente maceria umana.

Che dire?! E’ davvero una piccola grande storia violenta, disegnata con tratto rapido e approssimativo, dai toni cupi e profondi, che dà una costante idea di movimento e che in effetti trasmette una notevole inquietudine, ma tutto sommato un fumetto impreciso, soprattutto nel rendere le fisionomie dei personaggi, quasi non fossero loro ad avere importanza.

Del film in effetti, visto ormai un bel po’ di tempo fa (2005), ricordo la freddezza dei personaggi, la loro impermeabilità, quasi che non fossero loro a raccontarsi percorrendo la loro vicenda, ma a parlare fosse la vendetta stessa che si autodescrive e solo in parte denuncia.

Di Cronenberg inutile parlare, resta in ogni cosa che fa uno dei miei idoli. L’aspetto più perturbante del film e del racconto per me è nel modo in cui viene raccontata la storia di violenza o la storia delle violenze. Il film funziona, anche esteticamente, secondo la stessa dinamica di base del fumetto, per poi però andare oltre e raccontare molto di più, facendosi inevitabilmente complesso.

La famiglia perfetta di libro e film, gli Stall che rappresentano l’umanità comune e bonaria, l’uomo semplice insomma che è in ognuno di noi, tranquillo e inerte come siamo potenzialmente tutti, di fronte all’evento inaspettato tira fuori il suo imprescindibile lato violento. Il film parla di una violenza inestirpabile, di una storia che è sempre uguale, che segue ogni volta le stesse dinamiche psicologiche, reiterata nella metamorfosi non solo di Tom, ma anche della moglie e del figlio maggiore (si esclude la bambina biondissima, quasi a voler la sciare fuori l’infanzia da questo ragionamento sulla componente più istintiva ed autodifensiva dell’essere umano). Il fumetto circoscrive l’uso della violenza ai soli personaggi “perduti”, volontariamente malvagi o in crisi, invece il film estende il discorso a tutto e chiarifica le dinamiche di esplosione della personalità anche sugli altri componenti della famiglia. Tom Stall ha conosciuto la violenza, degli altri e di sé stesso e ha scelto di allontanarla da sé, per poi scoprire durante la vicenda raccontata da Cronenberg che la natura violenta è la sua natura, profonda, ancestrale, non sradicabile, pronta ad esplodere in qualunque momento anche senza particolari motivazioni, una rabbia feroce irragionevole o dettata dalla difesa. Così nella pellicola anche la moglie Edie (che nel romanzo invece è un personaggio quieto, buonissimo e appena abbozzato, comunque non credibile) e il figlio Jack scoprono la loro violenza, per poi ritrarsi con addosso la paura che la loro oscurità possa riemergere, dalla carne e dalla mente.

In entrambi i casi il titolo resta enigmatico e geniale: Una storia violenta viene raccontata come vanno raccontate le storie che parlano di violenza, in maniera precisa, consapevole, senza fronzoli stilistici, con azioni secche e descrizioni immediate,accompagnato dalla fotografia netta e fredda del sempre geniale Peter Suschitzky, che ha lavorato a lungo col regista. Resta buona l’interpretazione di Viggo Mortensen, assolutamente perfetto per il ruolo e sorprendente nel cambiamento della personalità che si legge nei minimi movimenti del suo volto, solitamente non troppo espressivo, quando passa da buono a cattivo: nei primi piani è come se cambiasse sguardo, ha gli occhi degli schizofrenici (e io ne so qualcosa), ricorda ancora Spider. Ancora una volta nei film di Cronenberg la violenza si fa malattia, qualcosa di invasivo e contagioso, né giusto né sbagliato, né positivo né necessariamente negativo, semplicemente qualcosa che cambia e che spiazza. Si parla di nuovo di metamorfosi, ma lo si fa ancora meglio, in maniera sempre più secca e pulita, efficace e anche aiutata da budget più alti.

Rispetto al romanzo le modifiche narrative sono moltissime: il nome del protagonista è stato cambiato da Tom McKenna a Tom Stall, John Torrino è diventato Carl Fogarty e il nome del figlio di Tom è stato cambiato da Buzz a Jack. Nel libro Millbrook si trova nel Michigan mentre nel film è nell'Indiana (ma come spesso fa Croneneberg, il tutto è stato girato in Canada) e i boss non sono più di Brooklyn ma di Philadelphia. Secondo una rivista tedesca, David Cronenberg e lo sceneggiatore John Olson (pluripremiato per questo lavoro) hanno cambiato i nomi che sembravano italiani per evitare di anticipare i legami con la mafia. Il più grande cambiamento rispetto al libro riguarda il personaggio di Richie e la sua fine. Nel romanzo, lui e Tom sono amici d'infanzia, mentre nel film sono fratelli, modifica narrativa che amplifica moltissimo passato e presente di Joey. Mentre nel libro Richie viene catturato dai mafiosi e mutilato, nel film è un boss mafioso e tenta di uccidere Tom, il quale gli spara per fuggire. In conclusione a parte l’incipit il film prende tutta un’altra piega, è molto diverso dal romanzo, ma il significato della novella non cambia di una virgola, anzi, viene fatto percepire ancora meglio.

Consiglio a chiunque la lettura dell’uno e la visione dell’altro (nonché di tutta la filmografia di Cronenberg, s’intende!!)

Due parole sul Diavolo veste Prada

Sempre nell’ambito di una rassegna che mi sono trovata ad organizzare con altre persone ho letto un libro che, se non fossi stata esplicitamente obbligata, forse non avrei nemmeno guardato, appoggiato sugli scaffali di qualche libreria. Questo è il secondo testo di Lauren Weisberger, che a quanto pare nei suoi primi due lavori (il precedente sarebbe Al diavolo piace dolce) resta più o meno sullo stesso argomento, prendendo spunto da ciò che sicuramente ognuno di noi conosce meglio: la propria vita. Negli stessi panni anche il regista del film omonimo, David Frankel, alla sua seconda fatica cinematografica, il cui esordio è costituito da un a me sconosciutissimo Promesse e compromessi(???), dunque un regista che si sta occupando di commedie più o meno romantiche, ma con qualcosa in più nelle tematiche, ancora tutto da scoprire. Del film dico che è passabile, abbastanza divertente, di certo non uno di quelli che si ricorderanno a lungo, ma per me è sempre spassoso veder ironizzare sul mondo della moda! Com’era prevedibile che fosse l’intera pellicola acquista valore quasi esclusivamente nella presenza di Meryl Streep, modificando notevolmente anche il ruolo nel romanzo del personaggio di Miranda Presley, per potersi concentrare ancora meglio su di lei. Riassumendo velocemente direi che il libro, scritto in maniera decente, ironico più che divertente, abbastanza fluido e pervaso da una discreta punta di cinismo, racconta la vicenda di Andrea, aspirante scrittrice, che rispecchia in parte i sacrifici fatti dall’autrice del libro ai suoi esordi come assistente di Anna Wintour, direttrice di Vogue, testata che qui diventa Runway. Miranda, assoluta protagonista del film, nel testo è un personaggio che incombe letteralmente sulla vita di Andy, ma pur sempre visto da lontano: freddo, disumano, senza possibilità di riscatto. Le differenze sono molte: nel romanzo risulta inferiore la presenza della vicenda sentimentale, che tuttavia come nel film resta sospesa nei meandri del tempo e delle vite che cambiano, sono quasi identici i personaggi che lavorano in redazione, con le stesse dinamiche esasperate, ma il romanzo si concentra molto di più su piccole follie psicologiche più che estetiche, come quella di un curioso portinaio che tortura chi deve entrare chiedendogli di cantare motivetti infantili e soprattutto su Andy e la sua migliore amica, Lily, ragazza geniale e inquieta dall’irregolare attività sessuale e molto attratta dall’alcool. Il libro in fondo si presenta molto più cattivo del film, così come immaginavo che fosse e non sfiora nemmeno il finale buonista in cui vediamo Andrea ricompensata di tutti i suoi sacrifici entrare come un treno nella redazione del New Yorker; nel leggere si osserva piuttosto una persona che è veramente disposta a tutto per poter fare il lavoro che sogna e che andrà sicuramente avanti su questa scia, alla quale alla fine la fortuna comincia a sorridere, ma anche in grado, letteralmente, di mandare tutto a quel paese una volta raggiunti i suoi limiti. Il film invece sceglie (non si sa bene se per motivi morali o economici, ma nel mondo del cinema, si sa, spesso tra i due mondi il confine si perde) di rendere in fondo umano e tormentato il personaggio di Miranda, quasi amabile e coraggioso (nel libro invece non è assolutamente così) nel suo perseverare nella lotta per mantenere uno status raggiunto dopo una vita di sacrifici, quasi vendicandosi su tutti gli altri, messi costantemente alla prova, dell’inevitabile scalata al successo che anche lei affrontò a suo tempo.

In entrambi i casi rimane un’idea molto malinconica del dedicarsi al proprio lavoro: il film lascia addosso la sensazione che per raggiungere alti livelli nel mondo del lavoro si debba rinunciare a molto della propria vita e della propria umanità, mentre il romanzo lascia spazio alla scelta consapevole e volontaria di strade alternative e più gradevoli, ma attraverso i personaggi secondari, come Alex e Lily, getta anche luce su un’inquietudine di fondo che l’autrice forse inconsapevolmente ha voluto raccontare, senza tuttavia chiarificarne l’origine e della quale ha dato idea senza in effetti parlarne mai. Al romanzo anche il “merito” in più di far percepire l’ansia di una vita condotta secondo un senso del tempo assurdo, davvero accelerato, dando l’idea che per molti non spingere il proprio assetto psico-fisico all’estremo equivalga necessariamente a non fare nulla della propria vita, cosa che insomma, potrebbe anche essere una scelta legittima, sacrosanta e consapevole!