Due parole sul Diavolo veste Prada
Sempre nell’ambito di una rassegna che mi sono trovata ad organizzare con altre persone ho letto un libro che, se non fossi stata esplicitamente obbligata, forse non avrei nemmeno guardato, appoggiato sugli scaffali di qualche libreria. Questo è il secondo testo di Lauren Weisberger, che a quanto pare nei suoi primi due lavori (il precedente sarebbe Al diavolo piace dolce) resta più o meno sullo stesso argomento, prendendo spunto da ciò che sicuramente ognuno di noi conosce meglio: la propria vita. Negli stessi panni anche il regista del film omonimo, David Frankel, alla sua seconda fatica cinematografica, il cui esordio è costituito da un a me sconosciutissimo Promesse e compromessi(???), dunque un regista che si sta occupando di commedie più o meno romantiche, ma con qualcosa in più nelle tematiche, ancora tutto da scoprire. Del film dico che è passabile, abbastanza divertente, di certo non uno di quelli che si ricorderanno a lungo, ma per me è sempre spassoso veder ironizzare sul mondo della moda! Com’era prevedibile che fosse l’intera pellicola acquista valore quasi esclusivamente nella presenza di Meryl Streep, modificando notevolmente anche il ruolo nel romanzo del personaggio di Miranda Presley, per potersi concentrare ancora meglio su di lei. Riassumendo velocemente direi che il libro, scritto in maniera decente, ironico più che divertente, abbastanza fluido e pervaso da una discreta punta di cinismo, racconta la vicenda di Andrea, aspirante scrittrice, che rispecchia in parte i sacrifici fatti dall’autrice del libro ai suoi esordi come assistente di Anna Wintour, direttrice di Vogue, testata che qui diventa Runway. Miranda, assoluta protagonista del film, nel testo è un personaggio che incombe letteralmente sulla vita di Andy, ma pur sempre visto da lontano: freddo, disumano, senza possibilità di riscatto. Le differenze sono molte: nel romanzo risulta inferiore la presenza della vicenda sentimentale, che tuttavia come nel film resta sospesa nei meandri del tempo e delle vite che cambiano, sono quasi identici i personaggi che lavorano in redazione, con le stesse dinamiche esasperate, ma il romanzo si concentra molto di più su piccole follie psicologiche più che estetiche, come quella di un curioso portinaio che tortura chi deve entrare chiedendogli di cantare motivetti infantili e soprattutto su Andy e la sua migliore amica, Lily, ragazza geniale e inquieta dall’irregolare attività sessuale e molto attratta dall’alcool. Il libro in fondo si presenta molto più cattivo del film, così come immaginavo che fosse e non sfiora nemmeno il finale buonista in cui vediamo Andrea ricompensata di tutti i suoi sacrifici entrare come un treno nella redazione del New Yorker; nel leggere si osserva piuttosto una persona che è veramente disposta a tutto per poter fare il lavoro che sogna e che andrà sicuramente avanti su questa scia, alla quale alla fine la fortuna comincia a sorridere, ma anche in grado, letteralmente, di mandare tutto a quel paese una volta raggiunti i suoi limiti. Il film invece sceglie (non si sa bene se per motivi morali o economici, ma nel mondo del cinema, si sa, spesso tra i due mondi il confine si perde) di rendere in fondo umano e tormentato il personaggio di Miranda, quasi amabile e coraggioso (nel libro invece non è assolutamente così) nel suo perseverare nella lotta per mantenere uno status raggiunto dopo una vita di sacrifici, quasi vendicandosi su tutti gli altri, messi costantemente alla prova, dell’inevitabile scalata al successo che anche lei affrontò a suo tempo.
In entrambi i casi rimane un’idea molto malinconica del dedicarsi al proprio lavoro: il film lascia addosso la sensazione che per raggiungere alti livelli nel mondo del lavoro si debba rinunciare a molto della propria vita e della propria umanità, mentre il romanzo lascia spazio alla scelta consapevole e volontaria di strade alternative e più gradevoli, ma attraverso i personaggi secondari, come Alex e Lily, getta anche luce su un’inquietudine di fondo che l’autrice forse inconsapevolmente ha voluto raccontare, senza tuttavia chiarificarne l’origine e della quale ha dato idea senza in effetti parlarne mai. Al romanzo anche il “merito” in più di far percepire l’ansia di una vita condotta secondo un senso del tempo assurdo, davvero accelerato, dando l’idea che per molti non spingere il proprio assetto psico-fisico all’estremo equivalga necessariamente a non fare nulla della propria vita, cosa che insomma, potrebbe anche essere una scelta legittima, sacrosanta e consapevole!
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