4.27.2007
Romanzo Criminale, di Giancarlo De Cataldo, Einaudi, Torino, 2002 e il film omonimo di Michele Placido, 2005
Nel contesto di una rassegna su cinema e letteratura che siamo organizzando nel paesino della bassa bresciana in cui vivo, ho letto il romanzo di De Cataldo dal quale è stato tratto il ben noto e omonimo film diretto dall'ormai onnipresente Michele Placido. Ho visto il film in sala appena uscito, nel 2005, anche perché la fotografia porta la firma di Luca Bigazzi, uno dei migliori direttori della fotografia che lavorano in pianta stabile oggi in Italia, nonché argomento della mia tesi di laurea. La pellicola si è rivelata interessante: non un capolavoro e non quello che ci si aspettava, poiché probabilmente ha esagerato negli intenti, andando ben oltre la storia della banda della Magliana, raccontata nella sua veste più romantica e gettandosi a capofitto in quello che poi fa anche il racconto, ovvero una sintesi della situazione politico-malavitosa dell'Italia degli ultimi trent'anni del Novecento, ma eccedendo proprio nell'ottica di far vedere di tutto un po', facendo dal mio punto di vista l'errore sibillino di voler stupire con effetti speciali. In sostanza, gran parte del lavoro storico-ricostruttivo portato avanti dal romanzo, che in quella sede funziona in maniera egregia anche appoggiandosi ai naturali ritmi e alla natura evocativa del testo scritto, naturalmente sullo schermo crolla sensibilmente, rendendo la fitta trama di collegamenti che il racconto di De Cataldo costruisce una frettolosa etichettatura dei principali avvenimenti di sangue che hanno sconvolto l'Italia e l'Europa dalla strage di Bologna alla guerra nell'ex Jugoslavia, senza riuscire a specificarne la complessità politica e ad evidenziarne l'eccezionale nonché scorrevolissimo, per come lo racconta lo scrittore, intrigo. Dal mio punto di vista ripeto, questo è sicuramente il miglior film di Placido come regista e anche una giusta scelta narrativa, perché il romanzo ha già una forma che si avvicina moltissimo a quella del thriller cinematografico di stampo mafioso, con tanto di specificati "titoli di coda", ma nonostante tutto, nonostante un buon cast, soprattutto nella figura di Kim Rossi Stuart, perfetto Freddo, del Libano interpretato da Pierfrancesco Favino (vincitore per l'occasione anche di un David di Donatello)o di Anna Mouglalis nel ruolo della gelida Patrizia, la pellicola risponde probabilmente, come tutte le altre di Placido, al famoso detto: "chi troppo vuole, nulla stringe".
Se dovessi paragonare film e romanzo direi quanto segue.
Il romanzo mi è piaciuto davvero moltissimo, è scritto indubbiamente bene: è chiaro, scorrevole, riesce a rendere la psicologia dei personaggi, ma quello che stupisce di più, pur essendo nel suo esprimersi di una notevole complessità, è l'estrema chiarezza nell'illustrare non solo le dinamiche dell'associazione a delinquere della quale parla, ma anche della politica italiana dal 1977 al 1992. Il racconto fa una sorprendente e consapevolissima ricostruzione degli avvenimenti storici (si sente che è scritto da un Giudice della Corte d'Assise), con spiegazioni dettagliate di come funziona (e non funziona) il nostro sistema giuridico; la ragnatela che tesse nella vicenda narrata e in buona parte, plausibilmente, nella realtà, i rapporti tra politica, mafie di varia natura e campaniliste, risulta illuminante. Ne deriva l'immagine di un' Italia costantemente divisa in grossi gruppi e famiglie di stampo ancora medievaleggiante, dominata dalla mentalità intera e particolarissima di un popolo comunque e sempre vincolato alle sue differenze regionali e allo stesso tempo in qualunque epoca riconoscibilissimo. La padronanza dello scrittore dei principali dialetti nazionali amplifica il senso di realismo della vicenda, ricordando negli accenti romani la scrittura pasoliniana alla quale De Cataldo si rifà apertamente, citando anche il personaggio a più riprese. Ci si cala subito nella vicenda che è ben più complessa e coerente del film. Quest'ultimo in effetti è sicuramente riuscito nel rendere le dinamiche psicologiche del gruppo, il regime di fedeltà e rispetto tra i protagonisti, i meccanismi di speculazione economica e associazionistica portati avanti da figure come quella del Libanese o di Dandy, ma soprattutto gli sviluppi umani, i legami amicali tra questi numerosi personaggi.
Dunque ci si trova di fronte ad una vasta galleria ti tipologie umane e criminali, smorzate nella loro cruenza dall'adozione di soprannomi particolarissimi, che ci calano ulteriormente nella romanità della situazione e che sempre nell'ottica di un'impresa narrativa notevole (600 pagine belle fitte) rendono note motivazioni personali, condizione sociale e dinamiche psicologiche e caratteriali di quasi tutti i personaggi (che sono moltissimi, dunque tanto di cappello), riuscendo a collegarli tutti uno all'altro: buoni e cattivi, poliziotti e giudici, corrotti e menti supreme, mafia napoletana, romana, siciliana, calabrese, sarda, milanese, perfino cinese, artisti, appartenenti al mondo del cinema, della televisione, dello spettacolo in generale, spacciatori, drogati, prostitute, padri di famiglia, piccole menti del mondo della politica e grandi architetti silenziosi che tengono letteralmente in mano i fili della polis italiana, gestendola come se si trattasse di un gioco (e forse lo è). Avvocati abilissimi, corrotti o semplicemente consapevoli della fatuità della legge, giocatori, anche in questo caso, poliziotti corrotti e integri fino alla morte, giudici sporchi e scrupolosi ma senza abbastanza coraggio o con troppe cose da difendere…Nel libro di De Cataldo c'è veramente di tutto, tutta l'Italia degli ultimi trenta, quarant'anni e non solo, ma in una vicenda che ha ordine preciso, in cui tutto torna e nella quale i confini tra buono e cattivo si dissolvono completamente in quello che sembra un generale sopravvivere e "mangiare", davvero molto italiano. La cosa che mi lascia più perplessa, pensando dunque al film come in parte riuscito nel raccontare le vicende del gruppo che ruota attorno a i tre poli: Libano, Dandy e Freddo, con le loro differenti personalità e della banda in sé a livello di spiegazione del loro effettivo impossessarsi di Roma per un certo periodo di tempo, creando un qualcosa di simile alla mafia che tutti abbiamo in mente, ma con spiccati accenti di romanità, dunque particolarissima (anche la figura del Secco funziona abbastanza bene nel film), quello che proprio non torna, dicevo, è la figura del commissario Scialoja (interpretato in maniera pessima da Stefano Accorsi, credibile solo nell'aspetto). Leggendo il romanzo davvero ci si chiede a che scopo inserire anche nel film la sua figura snaturandola così tanto. Nel testo Scialoja si fa assoluto protagonista, nesso fin dall'inizio del singolare rapporto tra forze dell'ordine e del disordine, coscienza ambigua e tormentata da una coerenza che cerca e che alla fine si rassegna a non trovare: la sua è una figura interessantissima, che rende l'idea dello sviluppo delle idee, dell'amarezza di accorgersi dell'impossibilità di cambiare un sistema così radicato nella società non solo italiana, di quanto sia inutile la lotta del singolo o anche del gruppo, davanti a dinamiche di potere ben più alte e allucinanti, che sembrerebbero lontanissime dalla vita di una qualunque persona che si possa definire onesta e che invece scopriamo già appartenerci. La figura di Scialoja dà senso in effetti a tutto il racconto, lo porta, al di là delle dinamiche della vicenda, ad una specie di morale molto amara e assolutamente vera: è lui che crea i nessi, è attraverso i suoi occhi e quelli del giudice Borgia che si legge la storia di una guerra fredda tutta pizza, lupara e studenti borghesi, mentre il Vecchio, Zio Carlo e il Maestro muovono le marionette della nazione piccola piccola in un intrigo che si fa europeo e poi mondiale. A parte altre differenze: il Freddo che viene fatto morire in maniera eccessivamente scenica, tanto per aumentare il pathos del finale, Roberta che gli viene fatta uccidere prima, anche qui tanto per dare allo spettatore succulenta materia tragico-amorosa (Placido, ma che fai?!). Insomma, non si può dire che il film non sia fedele al romanzo, in buona parte nello spirito e nella resa di atmosfere e vicende (ma sono così tante che pur avendone escluse una marea è inevitabile che ci riesca lo stesso), tuttavia non coglie il senso veramente politico del romanzo, resta in superficie, ci fa vedere qualcosa, non spiega molto e azzarda troppo a livello visivo, creando sproporzione tra contenuto e forma.
Il rapporto di Dandy con la mafia siciliana, che ben si adatta nella forma alle sue idee di uomo d'onore e il rapporto di questa con i servizi segreti italiani si intuisce e si capisce anche il rapporto morboso, strano, alterato e allo stesso tempo naturalissimo, animale, tra uomini e donne, in particolare nel triangolo amoroso "Dandy-Patrizia-Scialoja", ma il discorso sulla logica del potere, l'inevitabilità di sottrarsi a un destino mai nemmeno pensato per il commissario nel momento in cui Il Vecchio, detentore dei segreti della Repubblica, gli passa il testimone come una lama da ghigliottina, sottolineando ancora una volta come anche chi detiene potere sociale sugli altri e sugli eventi, ma non sulla vita e sulla natura, non possa nemmeno sottrarsi a questo stesso. Tutto questo insomma, dove sarà finito?!
Prima di leggere il romanzo pensavo che il film non fosse un capolavoro, avesse ecceduto e tuttavia restasse interessante…lo è ancora, non è male, ma non ha reso: se il tentativo era quello, non ha restituito lo spirito e gli intenti del racconto, ha parlato solo di un gruppo di amici malavitosi (e questo l'ha fatto bene) e ha fatto vedere, ma non capire, un po’ di attualità italiana.
Consiglio senza alcun dubbio la lettura del romanzo che riprenderei anche adesso, tra l'altro specchio di un notevolissimo bagaglio culturale generale di De Cataldo, mentre sul film conservo le mie perplessità, soprattutto sulla regia. La fotografia invece ha saputo rendere, assieme alla scenografia, molto bene le atmosfere, che in effetti durante la lettura si immaginano simili.
Etichette: G. De Cataldo, libri e cinema, M. Placido, Romanzo Criminale
4.08.2007
300, di Zack Snyder sulla G.N. di F. Miller
Prima di tutto sottolineo, dato che non basta mai, la splendida fotografia di Larry Fong, che ha del mirabolante per eleganza, sontuosità e perfezione, nonché sorprendente gestione del colore. Chapeau, ricordando che Fong è anche autore della fotografia di diverse puntate di Lost e di Hero di Zhang Yimou.
Il film non mi ha annoiata ed è volato via in un soffio. Certo, è un bel po’ retorico e assomiglia assai a tutto quel Fantasy o allo pseudo-storico che ci stiamo sorbendo negli ultimi anni, ma dal mio punto di vista resta comunque pertinente al suo ambito, a quello della Graphic Novel, senza molte altre pretese in più.
Per quanto riguarda i commenti di ordine socio-politico e tutto quello che si è detto accostando il film al contemporaneo, personalmente non sono d’accordo. A parte il rinvigorire i miei ricordi delle medie sugli spartani e l’illustrare bene certe tecniche di combattimento, a me è sembrata semplicemente una bella e sanguinaria storia sulla difesa della propria libertà e dei personali ideali, che non fa mai male. Il popolo di Serse arriva sì in Grecia con una posizione politica piuttosto originale e sofisticata, ma comunque in guerra, allo scopo di conquistare terre e spinto da una buona dose di fanatismo. Serse non è ovviamente in dialogo effettivo con le popolazioni indigene, ma desidera invece la loro completa sottomissione ed umiliazione, soprattutto in senso morale. La guerra è sempre guerra, è una dimensione folle, e i più coerenti restano forse gli spartani, pur nel loro essere profondamente intolleranti. Poi qui si parla di difesa, non d’attacco. Non si può certo ritenere sbagliata la difesa delle proprie terre, attuata sulle stesse (e non tramite bombardamenti aerei a distanza su quelle altrui).
Unici veri nei, dal mio punto vista, restano la colonna sonora Heavy Metal che non c’entra nulla, forse usata per non consentire allo spettatore di confondere storia e fantasia e la voce terribile di Serse, un risibile doppiaggio italiano di Alessandro Rossi, che sinceramente si poteva evitare. Per il resto, gran bel film, non un capolavoro, ma senz’altro fatto bene, Sin City comunque resta sempre un gradino più su.